Pierpaolo Mittica, classe 1971, nato a Pordenone, è un fotografo e umanista italiano riconosciuto a livello internazionale. I suoi reportage sono racconti di verità capaci di portarci dentro a quegli eventi che hanno colpito al cuore la comunità mondiale. Attraverso l’immagine Mittica ci porta a conoscere realtà così lontane eppure così vicine, e a comprendere le conseguenze di alcuni dei più grandi disastri provocati dall’uomo. Intervistarlo è stata per noi un’occasione unica per capire meglio il ruolo della fotografia documentaristica e riflettere su temi che, oggi più che mai, sono massima attualità per la società umana.La foresta brucia dietro la città fantasma di Pripyat nel devastante incendio del 27 aprile 2015. Pripyat, zona di esclusione di Chernobyl 2015Come hai iniziato la tua attività di fotoreporter? Ho iniziato a livello professionale nel 1997 affrontando il mio primo reportage: la guerra dei Balcani. Sono partito per Sarajevo per raccontare che cosa succedeva nel cuore dell’Europa. Ho iniziato perché avevo la necessità di raccontare storie di ingiustizie, soprusi, avevo la necessità, come ho tutt’oggi, di dare voce a chi non ce l’ha. Quali sono stati i tuoi maestri? Ho avuto la fortuna di avere diversi grandi maestri nella mia vita fotografica. Il primo è stato mio zio Alfredo Fasan, colui che mi ha fatto conoscere la fotografia e dato i primi rudimenti di tecnica e camera oscura. Poi Giuliano Borghesan e grandi personaggi della fotografia internazionale che ho avuto la fortuna di conoscere e con i quali ho stretto una profonda amicizia, Charles-Henri Favrod, Naomi Rosenblum e il mio grande maestro in assoluto, Walter Rosenblum. I tuoi reportage sono all’insegna della denuncia sociale, ma quale soggetto avevano le tue prime foto da principiante? Ho iniziato con la fotografia di viaggio: mi hanno sempre appassionato i viaggi e la scoperta di nuove culture. In seguito, durante un viaggio in Vietnam nel 1994, c’è stato il mio “cambiamento”. Mi trovavo a Danang, una città in mezzo al Vietnam, sono uscito per fare foto e mi sono diretto nella periferia. Lì sono entrato in una bidonville, era la prima volta che vedevo una cosa del genere con i miei occhi, direttamente. Le condizioni di vita di quelle persone mi hanno sconvolto e, proprio in quel momento, mi sono reso conto che la fotografia diventava importante per raccontare la loro vita e non più la mia.
I tuoi reportage sono sia a colori che in bianco e nero. Su quali motivazioni si basa questa diversa scelta di espressione? Anche se sono nato praticamente con il bianco e nero e per tanti anni ho fatto bianco e nero e camera oscura, negli ultimi anni alterno l’utilizzo del bianco e nero e del colore. Nella mia filosofia fotografica tutto dipende dall’importanza che ha il colore nel raccontare: se il colore è fondamentale e mi aiuta a raccontare la storia allora lo preferisco, se invece diventa solo un elemento superfluo e distraente allora opto per il bianco e nero. Di solito la scelta avviene quando mi trovo sul campo e mi rendo conto della situazione.la volpe radioattiva, Pripyat, Zona di esclusione di Chernobyl, 2015Qual è il vero ruolo di un fotoreporter nella società? Il ruolo del fotoreporter è quello di “messaggero”, di “informatore”: noi non facciamo altro che portare una situazione agli occhi di altre persone per cercare di informare e magari riuscire a cambiare le cose. Non siamo qui per cambiare il mondo, questo, di solito, è l’errore più grande per chi si avvicina a questo mestiere. Noi non cambiamo il mondo, non ne abbiamo il potere, ma abbiamo una grandissima responsabilità, che è quella di informare, e nella maniera più corretta possibile. Poi saranno le persone informate correttamente, magari, a cambiarlo, questo mondo. Il degrado ambientale che tu mostri nei tuoi reportage si accompagna anche ad un degrado umano? È tutto interconnesso, negli ultimi anni mi sono rivolto molto alla ricerca sui disastri ambientali e su quello che l’uomo sta facendo alla natura, perché credo che sia la situazione di emergenza più grave che l’umanità si trova ad affrontare, e i cambiamenti climatici, che sono sotto gli occhi di tutti, ce lo dimostrano ogni giorno. Ma questa distruzione dell’ambiente avviene ovviamente di pari passo con la distruzione dell’essere umano che lo vive. Nei miei lavori racconto il degrado ambientale e umano insieme.Selfie di fronte alla stele di Pripyat, zona di esclusione di Chernobyl, 2015Hai fatto un lungo reportage su Chernobyl e sei stato il primo fotoreporter a entrare nella zona proibita di Fukushima. In che modo riesci ad affrontare la paura e il pericolo? Se fai questo mestiere lo fai per una scelta personale, per una motivazione molto forte che ti spinge a farlo, non certo perché è un lavoro come un altro. Questo per dire che la motivazione che ci porta a fare questo lavoro è talmente forte che ci fa superare tutti i problemi che possiamo trovare durante il nostro lavoro (e che sono tanti e spesso molto difficili da affrontare) e le stesse paure, che vengono meno grazie proprio a questa spinta motivazionale. Il tuo reportage su Chernobyl denuncia le conseguenze dei disastri dovuti all’errore umano nelle centrali nucleari. Pensi che le centrali nucleari moderne siano sicure? Spesso è molto pericoloso parlare di errore umano, perché questi termini servono per “coprire” le responsabilità umane, scaricando la colpa di qualcosa su un “errore” e niente di più. Le conseguenze e le probabilità di incidenti nucleari si conoscevano fin dall’inizio dell’era nucleare, chi ha sviluppato il nucleare civile lo ha fatto solo per interessi militari (produzione di armamenti atomici) sapendo benissimo che cosa poteva succedere e, quindi, quali erano le eventuali conseguenze. Di conseguenza, non parlerei di errore umano ma di crimine contro l’umanità con dei responsabili per precisi, in primis l’AIEA, l’agenzia internazionale dell’energia atomica, insieme a tutti gli stati e capi di stato che hanno dato il via allo sviluppo del nucleare civile. Le centrali nucleare “moderne” non esistono, le ultime costruite risalgono agli anni ottanta, quelle nuove in costruzione si sa già che presenteranno le stesse criticità, in primis perché sono governate e controllate dall’uomo e sappiamo quanto è fallibile l’essere umano.Residenti in attesa di andar via per sempre dalle loro case, Tomioka, Zona di esclusione di Fukushima, 2011Pensi che la fotografia sia il mezzo più idoneo per la denuncia sociale? È sicuramente un mezzo molto potente, rispetto alla scrittura, è più immediato, la scrittura richiede che la persona legga l’articolo e spesso le persone sono “pigre” e non leggono, la fotografia è lì, la vedi, se è una “buona” fotografia ti colpisce e ti informa subito. Rispetto al video per alcuni versi è più limitativa, non racconta tutto come il video, ma spesso è meno “dispersiva” nel senso che spesso i video ce li dimentichiamo, mentre una “buona foto” alla fine ci rimane impressa nella memoria. Nei tuoi reportage c’è molta vicinanza con le persone “locali”. In che modo ti approcci a loro e come riesci a conquistare la loro fiducia? Questa è la parte fondamentale del reportage: se non sei vicino alle persone non potrai mai raccontare la loro storia. L’approccio è semplice: prima di fotografare parlo molto con le persone, cerco di conoscerle e di farmi conoscere, cerco di capire la loro vita per poterla raccontare al meglio, rispettandole profondamente. Per questo, spesso, cerco di vivere la loro vita come la vivono loro. Per capire meglio quello che provano. Il tuo reportage sui ladyboys thailandesi riporta alla ribalta un tema caldo anche in Italia, ossia, quello dei transgender: i ladyboys sono molto più accettati nella società rispetto ai transessuali italiani, secondo te perché? È una questione socio-culturale e religiosa. Sia la cultura sociale thailandese che la loro religione, il Buddismo, nascono con un’impronta di estrema tolleranza verso tutto e tutti, e questo è presente in tutti i livelli della società, perché culturalmente e religiosamente sono educati e cresciuti così.Olia, 14 anni è affetta da osteosarcoma. Qui sta filmando la sua amica Ania mentre suona la chitarra. Ania soffre di un cancro alla tiroide e cancro ovarico. Casa famiglia, Zaporuka ONG, Kiev 2015Sei un fotografo pluripremiato e con menzioni d’onore soprattutto all’estero. Quali sono i limiti del fotogiornalismo italiano? I limiti, in Italia, sono più che altro di considerazione della fotografia, limiti culturali derivati forse dalla troppa importanza che viene data alle altre forme d’arte come la pittura e la scultura rispetto alla fotografia. Eppure tutto il nostro mondo quotidiano è fatto di fotografia: la televisione è pura immagine, le foto che facciamo anche con un semplice smartphone e che poi condividiamo in Facebook, Twitter, Instagram sono immagini. Milioni di immagini ci colpiscono ogni giorno senza che noi ce ne rendiamo conto e, soprattutto, non ci rendiamo conto se un’immagine sia di qualità oppure no. Questo è un peccato perché i fotogiornalisti italiani sono tra i migliori al mondo. Quali sono i consigli che riserveresti ai giovani d’oggi che vogliano intraprendere la tua stessa strada? Avere passione, crederci, lavorare duro, trovare un maestro, seguire i consigli e mettersi sempre in discussione, continuamente. A che progetti stai lavorando adesso? Adesso sto lavorando a due progetti a lungo termine, uno intitolato “Chernobyl Stories” che racconta quello che succede all’interno e all’esterno della zona di esclusione a 30 anni di distanza dal disastro nucleare. Il secondo progetto si intitola “Living Toxic”: è un progetto iniziato nel 2011 che documenta le zone più inquinate del mondo, dove la radioattività, la contaminazione da metalli pesanti, fumi e gas tossici e l’inquinamento chimico continuano a distruggere, giorno dopo giorno, la vita dell’ecosistema e delle persone che ci abitano. È un lavoro che vuole raccontare come stiamo distruggendo la Terra, come le persone sono costrette a vivere in questi ambienti proibitivi per la vita umana. È un lavoro che vuole mostrare che cosa ci aspetta se non iniziamo a prendere provvedimenti urgenti per la salvaguardia del nostro ambiente.