Intervista a Nicola Dinato

Storia di uno chef stellato

Nicola Dinato ha fatto parlare di sé quest’anno: giovane chef di Castelfranco Veneto, ha ottenuto una stella Michelin per il ristorante Feva, che gestisce insieme alla moglie e caposala Elodie Dubuisson. Sta partecipando inoltre allo Chefs’ Cup 2015, facendosi strada fino alla finale a colpi di pentole e di gusto. Ha viaggiato e cucinato, assaggiato e imparato, lavorando nei migliori ristoranti in giro per l’Europa e oltreoceano; tanto per farvi capire, citiamo il Gavroche di Michel Roux Jr a Londra, Le Louis XV di Alain Ducasse a Montecarlo, El Bulli di Ferran Adria a Roses e Alinea di Grant Achatz a Chicago. Come un polipo ha allungato i tentacoli e ha fatto sue tecniche ed esperienze culinarie diversissime, interpretandole in modo originale e personale. Nessun limite alla sperimentazione. Il risultato? Piatti che meravigliano, che mandano in brodo di giuggiole le papille gustative, esplosioni di sapore, vera Arte da gustare e godere con tutti i cinque sensi. Crede fermamente in quello che fa: la sua cucina ruota intorno all’ideologia della Cucina Madre e alla ricerca dei buoni prodotti, quelli “veri” e di qualità. Quelli che fanno, in poche parole, la buona tavola.   L’abbiamo intervistato per farvelo conoscere meglio. E, mi raccomando, tenetelo d’occhio! Iniziamo con una domanda inevitabile: ora che ti sei guadagnato la tua prima stella Michelin, ti senti anche tu tra le stelle? No, assolutamente. La stella Michelin è un nuovo inizio. Per noi chef è vista come la prima laurea. Pertanto poi inizia il vero lavoro. Se mi sentissi già tra le stelle significherebbe che sono già arrivato, che ho perso il contatto con la realtà. Invece per me, ripeto, è un punto di partenza ed è rimasto tutto come prima, ma l’evoluzione continua ed è vero che ora sono più libero di esprimermi, non devo più agire sulla psicologia delle persone per proporre un piatto o un concetto, perché ora la clientela è più educata e sa già dove sta andando; la gente mi dà più ascolto sulle stesse cose che dicevo prima. Lo trovo divertente ma allo stesso tempo gratificante. Cosa significa il nome “Feva”? Feva è la “menda” mia, dei Dinato. Il soprannome che davano una volta a i ceppi familiari ed è oramai scomparso. Se indagate tutti hanno una “menda” dal padre e dalla madre. Tradotto, è la mia radice, la radice del territorio in cui ci troviamo. Tramandare una tradizione è compito di un cuoco, soprattutto se porta avanti una missione nei luoghi dove è nato e cresciuto.   Cos’è la “Cucina Madre”? La nostra cucina è femmina. La Cucina Madre è la cucina che parte dalle origini della cucina italiana. Una cucina nata e sviluppata dalle casalinghe, dalle mamme, dalle nonne. È li che nascono le ricette che ad oggi per noi sono comuni. Nata in casa al servizio dei lavoratori, dei contadini, degli operai. Non è nata e codificata alle corte dei re, vedi la cucina francese da dove poi nascerà negli anni ’60 la Nouvelle Cuisine. Con questo voglio identificare l’autentica nuova ondata dell’alta cucina italiana. Èun nome che vorrei fosse riconosciuto a livello internazionale per identificare la gastronomia italiana. Mai come in questo periodo la cucina italiana è stata così prolifera e ricca di nuovi talenti e contenuti, e da sempre abbiamo assistito le altre cucine (francese, spagnola, nordica, sudamericana) fare da traino allo spostamento dell’interesse gastronomico globale. Per questo sto portando avanti questa missione, che è una delle più difficili. Così da spettatore mi è cresciuto il desiderio di unire tutti i grandi cuochi in una cucina e in un nome semplice ma identificativo dell’italianità, e l’unico modo per fare sinergia in un popolo di solisti e individualisti è spostare l’intera operazione di unione in un movimento artistico, con un suo manifesto: Cucina Madre, per l’appunto, in cui sono racchiuse le linee guida, i dettami e i parametri per farne parte. L’alta cucina italiana, vista come un movimento artistico, potrebbe essere l’unico modo per unire la divulgazione del nostro sapere in cucina, del nostro modo di lavorare e per far sì che più aspiranti cuochi possibili trovino nella Cucina Madre le basi su cui fondare la propria carriera, fieri di portare avanti una “rivoluzione gastronomica”. Per fare questo bisogna partire dalla fonte: la formazione, con un sistema di accademie ben coordinato e con un sistema di comunicazione intelligente, cioè che riesca il più possibile a coinvolgere chef importanti che sposino il manifesto di questo movimento artistico e culturale. Cibo, gusto ed estetica: come riesci a bilanciare questi tre elementi? È qualcosa di naturale. Certo, ci vuole una solida base tecnica, un senso del gusto, molta sensibilità, ma dopo un po’ c’è quasi un rapporto “umano” con la materia prima: devi saperla ascoltare e devi capire come esaltarla al meglio. Oltre, comincia la sperimentazione, accostamenti mai provati, prove su prove, fino a che, anche dopo anni, avviene l’archiviazione di un piatto nel gusto, nella presentazione, nel design del materiale. Ma il bello della cucina è proprio questo: c’è spazio per tutti perché è infinita. Innumerevoli modi di pensare, accostamenti, tocchi, ingredienti, tecniche, spunti con ogni volta un risultato originale, inedito. Non può essere visto come un lavoro, deve essere vista come arte fatta da artigiani.   Nel vostro menù è presente il “tiramigiù”: è una variante malinconica del “tiramisù”? No, è il Tiramisù 2.0, ovvero una variante del tiramisù nato negli anni ‘60 al ristorante Le Beccherie a Treviso, ispirato alla zuppa inglese. Il tiramisù originale è stato chiamato così per le qualità nutrizionali, notevoli quantità caloriche abbinate alla caffeina dei biscotti secchi inzuppati nel caffè, pertanto per “tirarti su di tono fisico e mentale”, ma che prevede una stratificazione uguale di crema e biscotti che si ripete fino all’ultimo strato con spolverata di cacao. Mentre il tiramigiù non nasce come “torta” ma come dolce in bicchiere che ha gli stessi ingredienti del tiramisù (in più ha solo l’aggiunta di amaretti nel fondo), stratificato al momento ma con consistenze diverse e richiede che il commensale affondi il cucchiaio fino in fondo – “giù”, per l’appunto – per poter cogliere tutte le diverse consistenze e i sapori. Sappiamo che utilizzi ingredienti locali in piatti internazionali, come la tempura di radicchio o i nikuman al salame: come reagiscono i tuoi clienti a questa “internazionalizzazione” dei prodotti locali? Bene. Sono contaminazioni inevitabili al giorno d’oggi, evitarle significherebbe essere eremiti in cucina. L’importante è avere la base solida nel territorio con i suoi prodotti, i suoi artigiani e la sua gente, poi saper cogliere le sfumature globali e saperle abbinare, per far sì che il cliente possa farsi un piccolo viaggio attraverso il cibo, un’esperienza.
Qual è l’ingrediente più insolito che hai mai usato? La tartaruga quando lavoravo a New York. Qual è il tuo piatto più provocatorio? Ne ho giusto qualcuno: “Ostriche e nervetti”, “Cuore Tonnato”, “Piedino di Maiale e Sgombro affumicato, Wasabi e spuma di Rafano”, “Alice nel Paese delle Meraviglie”, “Coffee and Cigarrettes”, “Sbirratra” (risotto alla sbirraglia alla Birra Atra 32), “Crème brûlée istantanea”… Vi bastano o continuo? (Sì, ci bastano ed ora siamo affamati! Ndr) Non solo creazione, sperimentazione e gestione all’interno del ristorante Feva: che altri progetti hai all’attivo? Tantissimi. Per primo, CUSVI (associazione no profit) è il laboratorio ricerca e sviluppo culinario, la mamma di tutti i progetti, il cervello di tutto, l’incubatore di start up del food. EVO Elements, la prima start up di CUSVI. AGRIREVE, il sogno di agricoltura, come vorremmo fosse fatta l’agricoltura. RADIOCUSINA, agenzia di comunicazione del food nonché Web Radio. Incibo (nel cibo), ovvero l’intelligence di CUSVI. MATERIA, design applicato al food. RILAB, laboratorio ristorazione interattiva. Sappiamo che hai conquistato l’accesso alla finale di Chefs’ Cup 2015 che si terrà il 23 settembre all’Expo di Milano. Ci puoi svelare qualcosa sulla tua preparazione per la grande sfida? No, non mi preparo mai alle competizioni, perché sono sempre convinto di perdere. Devo avere un’ispirazione, un momento in cui vedo chiaro cosa potrei fare. Ma non lo prevedo mai.
 
Qual è il tuo ristorante preferito? Ad oggi, Maison Bras. Qual è secondo te la vera opportunità che andrebbe colta, oggi, dai giovani? Per prima cosa capire cosa è reale e cosa non lo è. Vivere la giornata come non ci fosse un domani. Capire che, se sanno sfruttare bene e con intelligenza questo lavoro, possono avere il mondo sul palmo di una mano. Ovvio che tante soddisfazioni corrispondono ad altrettanti sacrifici. Immaginiamo di trasformare la cucina in un campo di battaglia. Puoi scegliere le armi e il luogo dello scontro: a chi lanci la sfida? Piergiorgio Siviero Tra le persone che conosci c’è qualcuno di particolarmente… “Notorious”? Oriol Labarias (BCN)
 

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