Intervista a Gianni Potti

Le aziende italiane tra buona e cattiva comunicazione.

Chi meglio di un imprenditore con oltre 30 anni di esperienza in comunicazione poteva inaugurare il nuovo filone di Notorious People? Una nuova linea editoriale che coinvolge imprenditori, marketers ed i massimi esperti internazionali di comunicazione.

Sappiamo che la comunicazione gioca un ruolo chiave nella società: dà linfa alle imprese, genera nuovi business, traina le innovazioni che sono destinate a coinvolgere (e a volte sconvolgere) l’intera comunità. E noi, ogni giorno, con il nostro ruolo professionale, abbiamo l’occasione di confrontarci direttamente con imprenditori e direttori marketing di ogni tipo, nei settori più disparati.
Con loro, con voi, vogliamo parlare di buona e cattiva comunicazione, analizzare casi reali, scoprire nuove opportunità, ricercare nuovi punti di vista.

Quello della comunicazione professionale è un mare in tempesta, un territorio dove le regole cambiano di continuo, dove cadere nella mediocrità è estremamente semplice. Ma non ammissibile, specialmente in un momento in cui un errore può comportare la distruzione di un brand. Vogliamo svincolarci dall’approccio commerciale e pretenzioso che ha generato un pullulare di articoli che offrono la “ricetta del perfetto comunicare”.

A Gianni Potti non abbiamo chiesto se esiste una ricetta per affrontare correttamente gli investimenti in comunicazione. Presidente CNCT Confindustria Servizi Innovativi e tecnologici; Consigliere Delegato “Industria 4.0, innovazione e ricerca” di Confindustria Veneto; Presidente di Fondazione Comunica; Co-founder di Talent Garden Padova.

L’esperienza di Gianni Potti tocca aziende e politica, imprenditori affermati e giovani leve. Ecco la sua visione, nel contesto di un percorso di digitalizzazione che è lungi dal concludersi.

Quali sono le opportunità che gli imprenditori dovrebbero cogliere per investire correttamente in comunicazione?

In un’overdose generale di comunicazione, bisogna prima di tutto distinguere tra la buona e la cattiva comunicazione. La buona comunicazione è attenta ai trend e capisce dove andare a colpire. Analizzare e anticipare questi trend è il primo passo per capire dove investire e ritornare sui binari dell’espansione.

Durante i miei anni di formazione vigeva la regola che un’azienda doveva investire almeno il 10% in comunicazione. Oggi pochi lo fanno, chiaramente i tagli dovuti alla crisi hanno influito in modo enorme. La situazione in cui ci troviamo è dunque anti-ciclica: se la comunicazione porta verso l’espansione, la non-comunicazione porta ad una contrazione. Il primo passo per ogni azienda è quindi individuare le giuste priorità.

È davvero possibile per le aziende italiane affrontare un approccio omnicanale alle strategie di comunicazione? O sono poche a poterselo permettere?

Per parlare di omnicanalità è necessario prima di tutto affrontare un passaggio essenziale: traghettare le aziende dall’analogico al digitale. In un processo come questo “entri analogico ed esci digitale”. Noi operatori della comunicazione possiamo farlo in vari modi: condividendo il nostro know-how attraverso i Digital meet (il prossimo Digital Meet è in programma dal 19 al 22 ottobre 2017, ndr), creando dei seminari, istruendo i nostri clienti. È un investimento continuo che non si rivolge solo alle aziende, ma anche al pubblico, che deve essere digitalizzato affinché si generi un vero dialogo tra le parti.

Noi di Fondazione Comunica, per esempio, creiamo anche dei momenti di formazione “in pillole” per incentivare la digitalizzazione di una fascia di utenti molto ampia che è rimasta indietro. Non solamente le generazioni più vecchie: il fenomeno riguarda anche molti giovani, che non sanno nemmeno usare uno smartphone. Oggi a questa fascia è preclusa la possibilità di accedere ad informazioni o utilities. Per le aziende, ciò si traduce in un ampio bacino di potenziali clienti che diventano impossibili da intercettare.

La comunicazione aziendale produce innovazione?

Il Digital divide che ci troviamo di fronte, e che va assolutamente colmato, è anche di tipo culturale ed è veramente esteso. Il ruolo delle aziende non è solo quello di aspettarsi dei risultati immediati. Siamo in un momento in cui si deve ancora colmare questo gap. Ogni azione di comunicazione è anche l’occasione per sensibilizzare ed educare il proprio pubblico nel percorso di digitalizzazione.

Se oggi avesse 20 anni come sceglierebbe di iniziare il suo percorso professionale nel mondo della comunicazione?

Se avessi 20 anni adesso andrei a lavorare in un ambiente di co-working. Quando abbiamo fondato Talent Garden siamo stati dei precursori e, per come è stato concepito, è qualcosa di più di una semplice condivisione di spazi: è la possibilità di creare dialogo a lungo raggio. Basti pensare che sono stati aperti 18 campus in tutta Europa e che questi ambienti coinvolgono quasi 2000 persone. Il valore incredibile che viene dato a tutto ciò è l’idea che 1+1 deve fare 3, non 2!

Sotto il nome “Agenzia di comunicazione” rientrano realtà anche molto differenti. Che caratteristiche deve avere il partner ideale delle aziende?

Nel settore della comunicazione il know-how è prezioso, spesso molto specifico, e le persone non sono disponibili a cederlo. Solo una realtà che integra il know-how e le esperienze è in grado di affiancare le aziende e gestire dei progetti professionali.

Qual è l’atteggiamento degli imprenditori italiani nei confronti della comunicazione professionale?

Ci sono diverse tipologie di imprenditori, ma principalmente possiamo dividerli in due: chi cerca nuove idee ed è disposto a crederci, e chi invece guarda solo al prezzo, generando essenzialmente una corsa al ribasso. Spesso questa categoria di imprenditori crede di poter gestire efficacemente i processi di comunicazione senza un supporto professionale.

Quindi magari partecipano ad un corso, prendono degli appunti, li portano in azienda e affidano la gestione di nuove attività ad un semi-professionista od un interno non specializzato. Questo perché la professionalità nel settore della comunicazione oggi non è ancora riconosciuta appieno.

Tra le imprese italiane ci sono quelle che hanno saputo reinventarsi, riposizionarsi e aprirsi a nuovi business, quelle continuano a temporeggiare, specie a causa di una sofferenza oggettiva. Come legge il fenomeno?

Attualmente la situazione vede tre fasce di protagonisti. Il 40% delle aziende, che possiamo considerare “lepri”, sono strutturate e hanno già abbracciato da tempo il digital, investendovi e apprendendo i vantaggi che può portare. Poi vi è un altro 40% di aziende che avrebbe le carte in regola per investire, ma è come se si trovasse a metà di un fiume da attraversare: esse non si evolvono ancora completamente perché a livello aziendale non è ancora avvenuto il cambio generazionale necessario.

Il restante 20% invece sta soffrendo molto: per queste imprese risulta impossibile intraprendere un percorso che comprenda una comunicazione digital più strategica e strutturata. Senza managerialità non c’è innovazione.

La politica potrebbe giocare un ruolo decisivo per supportare gli investimenti in comunicazione e digitalizzazione?

Le Banche non rappresentano più un partner per le aziende, quindi sì, la politica dovrebbe intervenire seriamente. Per il 2018, per esempio, è previsto il super ammortamento del 250% sugli investimenti in comunicazione che superino almeno dell’1% quelli dell’anno in corso. Ma si focalizza solo sugli investimenti in nuove tecnologie, come se fossero gli unici necessari a generare crescita. Gli apsetti tecnologi e non implicano una necessaria serie di percorsi di acquisizione di competenze che stanno a monte. La sfida vera per la crescita è mettere insieme l’aspetto tecnologico, quello formativo e il credito di impresa.

Qual è lo stato di fatto dell’E-commerce, a fine 2017, per le aziende italiane?

In Italia ci sono ancora vari gap legati all’E-commerce. L’E-commerce va visto proprio come un’impresa, con tanto di nuove figure al suo interno, come lo store manager che deve realmente gestire un magazzino. Sembra anche esserci una grossa differenza tra nord e sud: il sud sembra più disponibile e interessato ad apprendere il know-how dell’E-commerce.

Il nord invece appare più chiuso per via di una mentalità imprenditoriale che tende al “fai da te”: tramite meeting e corsi di formazione, l’imprenditore va ad acquisire delle competenze solamente in maniera superficiale, credendo di poter gestire e rielaborare le informazioni internamente e investendo budget irrisori nel marketing. Vi è invece la necessità di strutture organizzate e soggetti professionali formati che sappiano gestire tali processi: il mondo ha bisogno di professionalità e spesso, purtroppo, i nostri imprenditori se ne dimenticano.

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