Intervista a Alberto Mesirca

Passione, chitarra e musica

Alberto Mesirca, classe 1984, è tra i musicisti classici più promettenti d’Italia. Non ci metteremo qui ad elencare la grande quantità di premi vinti (basti dire che ha vinto per ben tre volte il premio Golden Guitar ed è stato candidato ai Grammy Awards per la miglior performance da solista) e nemmeno tutte le collaborazioni, ma cercheremo di capire, anche attraverso le nostre domande, perché Mesirca sia un fuoriclasse, uno che con la musica ci sa fare di brutto e che ha cominciato da giovanissimo a suonare per, poi, divenire un maestro indiscusso della chitarra classica. Il suo repertorio spazia dai tempi più antichi fino alla musica contemporanea e non c’è volta in cui Mesirca non si trovi totalmente a proprio agio con la musica: le note diventano un trip pazzesco. Oltre le armonie, oltre la fantasia, oltre la passione che sprigiona suonando, Alberto ci fa arrivare lì, davanti al sottile limite che divide il sogno dalla realtà, tutto questo con le sole corde di una chitarra. Iniziamo con le domande di rito: come ti sei avvicinato alla chitarra classica e chi sono stati i tuoi ispiratori più importanti? A casa mia si è sempre respirata aria di musica. Mio nonno era un pianista amatoriale, mia zia aveva una chitarra e mi ha spinto a prendere la decisione definitiva di studiare questo strumento. Anche i primi modelli ispiratori arrivano dalla musica che si ascoltava in casa: ad esempio, Arturo Benedetti Michelangeli, un grandissimo pianista, oppure la bravissima clavicembalista polacca Wanda Landowska che negli anni ’60 era un nome di punta. Io prendo spunto da diversi ambiti musicali, sono curioso e mi piace spaziare e sperimentare diversi ambiti, lo trovo un arricchimento. Nella musica classica, con le partiture, si rischia di rimanere trincerati in questo ambiente e un po’ riluttanti verso le musiche che non utilizzano lo stesso linguaggio, come il jazz. Nel rock, soprattutto, ci sono stati musicisti straordinari che tengo a modello come Jimi Hendrix, Eric Clapton e Marc Ribot, un chitarrista con cui ho avuto la fortuna di collaborare. Hai un repertorio che spazia in tanti secoli di musica. È il repertorio che sceglie o sei tu a scegliere il tuo repertorio? Penso sia una cosa reciproca e al tempo stesso “obbligata”. Mentre il repertorio del Classicismo e del Romanticismo è sempre stato molto più debole, nel Rinascimento o nel Barocco i compositori veramente in auge sceglievano gli antenati della chitarra come strumenti prediletti. Basti pensare a Francesco da Milano, un celebre liutista rinascimentale, di cui abbiamo a Castelfranco un manoscritto del 1565 conservato nell’archivio del Duomo che contiene delle composizioni inedite, l’unico artista, insieme a Michelangelo, ad aver ricevuto dal Papa quando era ancora in vita il titolo di “artista divino”. Nel ‘900 il repertorio torna a farsi interessante, con compositori importanti, come Luciano Berio, che hanno dedicato alla chitarra opere importantissime. Quando hai capito che la chitarra sarebbe stata il tuo lavoro, oltre che la tua passione? Ho sempre aspirato a diventare musicista professionista: quando ero piccolo mi sono dedicato tantissimo allo studio, ma il mio sogno era poter un giorno suonare con altri bravi musicisti. Dopo il diploma al Conservatorio ho mollato l’università per dedicarmi completamente alla musica e lì ho capito che quella sarebbe stata la mia strada, la cosa in cui avrei voluto investire tutto il mio tempo, senza certezza alcuna, come un salto nel vuoto. Poi, qualche premio arriva, qualche concorso si vince e, piano piano, dal sogno si comincia ad arrivare alla realtà. La professione del musicista deve essere supportata da un desiderio molto forte e da un grosso spirito di sacrificio perché è un ambiente in cui tante possono essere le incertezze e le delusioni. La gerontocrazia regna nella didattica musicale italiana. Secondo te dovrebbe cambiare qualcosa sul fronte dell’insegnamento musicale? Il sistema italiano adesso non dà spazio ai giovani. L’ultimo concorso ufficiale per entrare a insegnare in Conservatorio è stato fatto nel 1990: in 26 anni non c’è mai stato modo di accedervi. In Conservatorio, come all’Università, l’età media degli insegnanti è altissima. In musica, poi, gli insegnanti sono anni che non fanno concerti e per un ragazzo che vuole imparare a suonare non è certo un modello a cui aspirare. La scelta di chi insegna dovrebbe essere fatta in maniera più responsabile. Che differenza c’è tra interprete ed esecutore? Essere interpreti è una cosa a cui aspirare come musicista. Ci sono tantissimi bravissimi esecutori che compiono degli studi anche filologici su come eseguire i brani secondo i canoni di una certa epoca storica. Questo modo di suonare è anaffettivo e nella musica ed è, in realtà, un controsenso: la musica è fatta di sensazioni intoccabili e, quindi, senza l’apporto personale del musicista che è tramite tra l’esecuzione e il pubblico, tutto l’effetto della musica svanisce. Tantissime ore di studio finalizzate all’esecuzione perfetta di una cosa difficilissima a cosa portano? Interpretare, invece, è andare oltre all’eseguire, è cercare di dare un apporto personale agli spartiti. Qual è, se c’è, il rapporto tra la passione e la tecnica? Passione e tecnica vanno di pari passo: con lo sviluppo della tecnica si sviluppa anche la comprensione del brano e, quindi, anche l’interpretazione e la passione vengono di conseguenza. La tecnica è il passo obbligato per riuscire ad esprimere al massimo la propria passione come esecutore. Come riesci a far fuoriuscire la tua forte personalità suonando musica scritta da altri? Riuscire a rendere propri gli spartiti è un cammino lungo e difficile che, però, si può coltivare nel tempo. Tutto sta nello scoprire i propri punti forti: è attraverso la scelta del repertorio che una persona riesce a far emergere anche la propria personalità. Se uno è sopraffatto dalla difficoltà tecnica di un pezzo o non entra appieno nella poetica di un compositore è automatico che la sua interpretazione sarà priva di elementi interessanti.   21Tu parli spesso di sincerità in musica. Puoi spiegarci meglio cosa intendi? Bisogna essere sinceri nel senso che bisogna esprimere a fondo ciò che si pensa come artisti. Se uno imita qualcun altro, anche come esecutore, automaticamente non è se stesso, quindi, quello che arriva a chi ascolta non è reale. Per essere estremamente efficaci come esecutori bisogna portare la propria visione delle cose, la propria verità, altrimenti tutto diventa una bugia in note. Qual è il tuo rapporto con il pubblico? Un rapporto positivo. A me piace suonare proprio per questo. Sento molto la pressione del pubblico perché si cerca sempre di portare all’ascolto qualcosa di interessante, che non deluda le loro aspettative. La tensione svanisce quando inizio a suonare perché, poi, tutto diventa un grandissimo piacere. La forza di una sala con tanta gente in ascolto è molto potente, a volte più del suono stesso. La presenza di un pubblico in assoluto silenzio che aspetta che tu esegua la tua ultima nota dà una sensazione indescrivibile. Sappiamo che hai lavorato con musicisti importanti in tutto il mondo, tra cui il mitico Marc Ribot! Com’è nata la vostra collaborazione? Grazie ad un amico comune, un produttore di un’orchestra di Amsterdam. Ribot stava cercando un chitarrista classico che avesse voglia di dedicarsi allo studio e all’incisione dell’integrale dei componimenti del suo maestro, un chitarrista di origini haitiane di nome Frantz Casseus. Schizzi di composizioni inedite ispirati alla tradizione haitiana delle canzoni popolari e del voodoo. Erano schizzi incompleti e quindi il lavoro che si doveva fare era anche musicologico, perché bisognava ritornare allo studio delle fonti originali di questi componimenti. Siccome io avevo fatto diverso lavori simili su Francesco da Milano per le trascrizioni da liuto, per le trascrizioni di Scarlatti e per dei lavori a Instanbul di carattere etnico-musicologico, hanno pensato proprio a me. Un po’ alla volta abbiamo iniziato questa collaborazione che poi è sfociata nell’incisione integrale delle composizioni e nella composizione integrale di questi spartiti. Abbiamo anche suonato insieme nei concerti di presentazione a New York e siamo ancora in contatto anche per altri progetti. Come ha risposto il pubblico europeo alle sonorità particolari di Frantz Casseus? Abbiamo ricevuto delle critiche molto positive principalmente da ambiti non chitarristici. La musica di Casseus è musica non virtuosistica. ma molto dolce e tranquilla, probabilmente perché non aveva le cognizioni di sviluppo tecnico che all’epoca in Europa erano state sviluppate. Il suo modo di vedere la chitarra era più legato a una tradizione di fine ‘800: il gusto del bel suono, le composizioni molto liriche. C’è stata gente che dopo questo progetto ha rivalutato Casseus ma principalmente il successo è avvenuto tra gli amanti della musica jazz, afroamericana, tra chi ama le sonorità creole e sudamericane in generale. Nella tua carriera di musicista hai ottenuti numerosi successi. Che consiglio daresti ai giovani musicisti d’oggi? Nel campo specifico dell’arte performativa è necessario avere le idee chiare sulle scelte di repertorio. Naturalmente, il passo obbligato per chi suona è lo studio: in musica non c’è niente di più importante della dedizione, perché studiare è l’unico modo per conoscere le proprie abilità ed è anche un investimento nel futuro. E poi, consiglio anche di accerchiarsi di gente positiva, gente che capisca la tua passione, la tua dedizione, e di non tener conto della gente negativa. Se si vuole fare il musicista bisogna crederci fino in fondo senza tener conto delle avversità che possono esserci. Che musica ascolti, oltre a quella classica? Un po’ di tutto in realtà: musica jazz, rock, contemporanea, elettronica, quindi, in realtà apprezzo un po’ tutti i generi musicali. Mi piace moltissimo Tom Waits, per il Jazz John Coltrane, per il rock Eric Clapton: in realtà, qualsiasi input che viene da tutti gli ambiti musicali può essere d’aiuto per il proprio modo di suonare. Io sono aperto a qualsiasi tipo di contaminazione musicale. Paco de Lucia, il famoso chitarrista di flamenco, in un’intervista raccontava di essersi ferito a un dito durante un’immersione. Ci ha colpito la sua preoccupazione per il rischio di non poter più suonare come una volta. Tu come vivi il rapporto con le tue mani? Noi usiamo le unghie per suonare e ci sono molti musicisti che sono fanatici delle unghie, si mettono gli smalti rinforzanti, hanno sempre paura di romperle. Io non sono così ortodosso, probabilmente, perché è una vita che convivo con questo problema e ho ormai imparato e ne tengo conto in maniera relativa. Crediamo che essere “Notorious” significhi avere il coraggio di andare avanti nonostante le difficoltà. Nella tua esperienza sono state di più le porte aperte o quelle chiuse? Sono state tantissime le porte chiuse. Tanti mi chiedono “ma tu come hai fatto a diventare quello che sei?”. Io dico sempre che, in realtà, tutto è stato dovuto sì alla fortuna ma anche alla mia voglia di cercarmi le occasioni giuste. Le porte aperte ce le creiamo noi. Il lavoro deve essere continuo e costante e bisogna cercare di avere sempre l’umiltà e l’autocritica degli inizi. Tra i musicisti che conosci, sia morti che vivi, ce n’è qualcuno di particolarmente Notorious? Sì, tantissimi! Jimi Hendrix è stato uno di questi. Io ho avuto la fortuna di lavorare con Robert Fripp che è stato un grandissimo chitarrista che ha inventato il riff di “Heroes” di David Bowie. Lui per me è un grande esempio di rigore ma anche di genialità pazza che per me è straordinaria. Poi ci sono tantissimi esempi anche nel Jazz, ad esempio, Miles Davis è stato un visionario. Secondo me, il termine Notorious può anche essere visto nel senso di riuscire a prevedere i tempi. Come David Bowie, che ha anticipato le mode di vent’anni.

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